Ottobre sta per finire ma le giornate che ci sta regalando questo autunno 2015 sono imperdibili per gli amanti della montagna, sole, cieli tersi e temperature insolite. L’idea di andare al Bus de le Nèole per vederlo dal basso mi continua a frullare nella testa, è un richiamo vero e proprio, il coronamento di un progetto lasciato a metà lo scorso giugno.
Finalmente convinco l’amico Danilo Benvegnù a seguirmi e il 31 ottobre ci incamminiamo di buon mattino dal piccolo parcheggio a La Muda (m. 483) a fianco della statale 203 Agordina. Sono le 6:30 e inizia appena ad albeggiare, lungo la mulattiera a monte dei prati di Agre i cervi pascolano indisturbati, fa fresco ma la giornata si preannuncia splendida.
Ho lasciato a casa filtri, treppiede e tutte le finezze che abitualmente porto nello zaino quando vado a fotografare all’alba o al tramonto, il percorso sarà lungo ma soprattutto impegnativo da quanto ho letto sulla relazione e quindi meglio viaggiar leggeri: reflex e tre ottiche – il minimo indispensabile, qualcosa da mangiare e il cambio di vestiti.
Per le informazioni sul tracciato ho fatto riferimento alla pubblicazione di Giuliano Dal Mas, “Dolomiti Insolite 2” (Casa Editrice Panorama, Trento, maggio 2010) integrando con quanto trovato sulla monografia “Monti del Sole e Piz de Mezodì” curata da Pietro Sommavilla e Luca Celi con varie collaborazioni (Fondazione Giovanni Angelini – Centro Studi sulla Montagna, Belluno, 2014).
La comoda strada forestale oltre le Agre supera con un bel ponte di legno il greto del rio Pegolèra proseguendo in quella che è stata battezzata “la via degli ospizi” e che fa parte di uno degli itinerari tematici del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Noi però abbiamo un altro programma e proprio qui deviamo bruscamente a destra. Un cumulo di sassi a mò di omino segna l’inizio del sentiero che si alza subito molto al di sopra del greto del torrente inerpicandosi sul versante destro della valle. Il distacco dall’ambiente antropizzato è immediato e ci troviamo catapultati nella natura più integra e selvaggia, gli unici segnali della presenza saltuaria dell’uomo sono alcuni bolli rossi lungo la via e un piccolo ponticello di tronchi che incontriamo e che risulta provvidenziale per superare la Val del Colàz, una delle tante che caratterizzano il percorso, rudi e severe a tagliare i fianchi della montagna.
Il colpo d’occhio è emozionante e le cime del Piz de Mezodì e Piz de Mez sono pennellate dai primi raggi di sole, lassù è la nostra meta, il cammino è ancora lungo e non sappiamo ciò che ci aspetta.
Non manchiamo di rimanere stupiti ogni qualvolta ci si presenta davanti quella parte di sentiero che fino allora era rimasta nascosta dal versante del monte, incredibile come stiamo camminando sul filo di una esile cengia che appare solo un po’ meno ardita perché celata dalla vegetazione. Nei punti dove non ci sono alberi però il vuoto si mostra in tutta la sua verticalità sotto di noi a picco sul fondovalle e il grado di attenzione è altissimo. Val de le Antene, val dei Faghér, una dopo l’altra si susseguono in uno scenario mutevole e ricco di fascino, viottoli dirupati che conservano i nomi dialettali di un tempo, la scarsa frequentazione dei Monti del Sole ha salvaguardato pure la toponomastica rimasta immutata negli anni.
La progressione è molto divertente, lo sguardo viene costantemente rapito dal panorama circostante nonostante il sentiero richieda attenzione, piede fermo e sicuro. Le foglie sul terreno sono molto insidiose e rendono il fondo scivoloso, a metà della scorsa settimana due giornate di pioggia hanno sicuramente peggiorato la situazione. Seminascosta fra l’erba ecco spuntare uno splendida Salamandra pezzata (Salamandra salamandra), si fa fotografare e poi se ne va via quasi scocciata per essere stata disturbata in casa propria.
Ogni tanto consulto la traccia GPS per capire dove siamo, so che ad un certo punto dovremo deviare a destra e non seguire il sentiero principale. Incontriamo il primo bivio a circa 900 metri di quota dove si stacca l’itinerario per la forcella delle Coraie ben segnalato con tanto di cartelli, rarità in questi luoghi. Noi proseguiamo diritto per quella che da qui diventa una traccia ancor più esile. In breve giungiamo ad un punto dove il sentiero si interrompe bruscamente a causa di una frana. Ci alziamo di circa venti metri e poi perdiamo un bel po’ di tempo perché non ci riesce di individuare la continuazione nel versante opposto.
Che sia da salire lassù sopra quella cengia?
Che sia da scendere?
Facciamo un paio di tentativi ma non ci siamo, sembra un punto morto, fra l’erba secca non si riesce a percepire alcunchè.
Ad un tratto lo sguardo cade su un piccolo sasso colorato di rosso posto poco più a valle…. “eureka!!”
Non sono assolutamente d’accordo con il modus operandi di alcuni personaggi che abusano della vernice spray deturpando sentieri e interi gruppi montusi, una mancanza assoluta di rispetto per l’ambiente, aggiungo però che se le indicazioni sono fatte con il dovuto rispetto e seguendo un criterio ben preciso risultano senza dubbio di aiuto, in questo caso è così ed alcune provvidenziali marcature permettono di superare agevolmente un punto molto intricato di questo itinerario togliendoci d’impaccio.
Proseguiamo per altri cinque minuti di traverso lungo il pendio per giungere ad un canalone molto poco invitante, eppure il segno sulla roccia è inequivocabile e indica la via proprio in corrispondenza di questo infido passaggio, evidentemente unica possibilità per poter proseguire. Ci abbassiamo di poco ed eccoci ad affrontare alcuni insidiosi metri di traverso, resi ancora più difficili dalla roccia bagnata. In questo passaggio sentiamo la mancanza di una corda di sicurezza, ma siamo nei Monti del Sole e questi tratti un po’ più difficili sono all’ordine del giorno. Oltre il breve traverso ci rituffiamo in un altro canale dove la roccia è ben appigliata e in breve appoggiamo i piedi alla base della paretina, siamo in val Chegadór, qui una scritta sulla roccia indica il secondo ed ultimo bivio: diritto si prosegue alla volta di forcella Zana (altra bella avventura), invece a noi è riservata una ripida discesa fra rocce e loppa per giungere nel greto del torrente Pegolèra. Dalle informazioni riportate nelle due relazioni che ho sottomano un tempo il sentiero non avrebbe costretto ad una così repentina perdita di quota, ma l’originale percorso è stato deviato a causa di cedimenti del terreno nella parte alta.
In breve siamo a valle in un profondo e scuro canyon nuovamente a 900 metri di quota. Le nere pareti di roccia incombono su di noi e lo scorrere dell’acqua fa eco in questi spazi ristretti coprendo a tratti le nostre voci. Ci ingegniamo alla meglio per risalire la valle passando talvolta a destra, talvolta a sinistra della stessa. Il terreno tortuoso costellato di enormi massi, cascatelle d’acqua e salti di roccia rallenta molto il passo. In un paio di punti ci dobbiamo proprio arrampicare per superare due grossi blocchi di roccia che apparentemente sbarrano il percorso, ci diamo il cambio salendo prima l’uno e poi l’altro e passandoci gli zaini. L’impressione di essere da qualche altra parte del mondo, in vallate sperdute chissà dove è marcata, affrontare questi luoghi solitari equivale ad una bella avventura….a due passi da casa.
Lungo il greto a quota 1000 metri circa si trova il masso rinvenuto nel 2008, sulla cui superficie sono ben evidenti orme di dinosauro attribuite dagli studiosi dell’università di Padova a Coccodrillomorfi e Prosauropodi (Articolo del Corriere delle Alpi).
La progressione ci impegna molto, ciò nonostante guadagnamo molto lentamente quota. Iniziamo a farci qualche domanda perché se è vero che la base del Bus de le Néole è a 1620 metri e noi abbiamo appena sfiorato i 1000 metri quanta strada abbiamo ancora davanti?
Intanto la valle si sta lentamente allargando in un idilliaca conca costellata da guglie, torri e pinnacoli che sembrano stare in piedi quasi per magia sfidando tutte le leggi di gravità, uno scenario di rara bellezza nascosto alla vista, rifugio esclusivo di animali selvatici. Qui l’uomo è veramente una presenza inusuale, lo testimonia la corsa sfrenata di due camosci che con gran rotolare di sassi corrono sopra di noi…..mai visti camosci correre così veloci!
Mi guardo attorno scrutando ogni angolo di questo paradiso, vorrei catturare nella memoria quanto più possibile per non dimenticarlo mai, approfitto per fotografare cercando di trovare il punto di vista migliore per rappresentare al meglio un tale scenario, mi sento immensamente grato verso la natura che ha creato tutto ciò.
Danilo mi fa cenno di procedere, la strada è ancora lunga anche se la nostra meta è ormai a vista d’occhio…..almeno sembrava così.
Giunti infatti in prossimità del ghiaione finale ci rendiamo conto che ancora 600 durissimi metri ci separano dall’obiettivo. Le gambe sono provate dal continuo saltare su e giù per i blocchi di pietra della valle e comunque sono già alcune ore che camminiamo. Un grosso omino di pietra posto alla base del ghiaione ci suggerisce il punto dove affrontare questo ultimo duro approccio alla meta finale. Salgo un passo dopo l’altro inizialmente su fondo buono ma superata la metà il ghiaione diventa instabile e con materiale più fine, ogni passo smuove ghiaia e sassi che scendono verso il basso, l’incedere diventa più impegnativo mentre lo spettacolo sopra di noi inizia a materializzarsi mano mano che ci avviciniamo, ciò mi dà la motivazione necessaria per spingere nelle gambe. Puntiamo alla spalla sinistra dell’enorme camino aiutandoci fra i rami di una provvidenziale mugheta, qui il terreno è più stabile.
A mezzogiorno siamo proprio dinanzi al portale del Bus de le Néole, l’emozione è grande! Se non fosse opera della natura con la complicità di eventi franosi, lo si potrebbe paragonare al capolavoro di un prestigioso architetto.
Immenso, imponente, al di sopra di noi nella sua grandiosità. Era da qualche tempo che fantasticavo su come poteva essere questo luogo, averlo già visto da sopra aveva aggiunto ancor più curiosità, ora sono qui e non trovo le parole per descriverlo…..l’azzurro del cielo fa capolino lassù in alto, 150 metri sopra la mia testa….roccia….cielo e ancora roccia, pazzesco!
Il colpo d’occhio alle nostre spalle è altrettanto mozzafiato ed ora dall’alto di questa posizione privilegiata si riesce a intuire lo sviluppo lungo ed intricato della valle con le cime delle Dolomiti di Zoldo e del gruppo della Schiara a chiudere l’orizzonte illuminate dal sole.
Chiedo a Danilo di posizionarsi al centro dell’enorme sala sfruttando dei grossi massi che sembrano stabili. Io mi alzo poco più in alto e reflex alla mano mi concentro per scattare la fotografia che da tempo ho visualizzato nella mia mente. L’operazione non è delle più semplici sia perché non sono proprio comodo e men che meno stabile. La scena è completamente controluce ma vorrei anche riuscire a far risaltare l’interno di questa enorme grotta. Monto il 14 mm. Samyang ma non mi riesce di includere tutto in un unico scatto.
Decido per una panoramica verticale di sette foto che unirò poi assieme una volta a casa per ottenere un’unica immagine finale. L’importante è curare la sovrapposizione dei singoli scatti. Ne faccio più di una serie, meglio essere sicuri perché sarà improbabile un mio ritorno a breve quassù e uno degli scopi di questa escursione è di portare a casa questa la foto. Purtroppo non possiamo attardarci molto, vorrei catturare ogni singolo dettaglio ma le giornate iniziano ad essere troppo corte e trovarsi sulla via del rientro con il buio sarebbe assai pericoloso.
Ritorniamo quindi sui nostri passi sfruttando i punti più morbidi del ghiaione per una divertente e rapida discesa. Poi il greto e la risalita del canale. Arriviamo a La Muda poco prima dell’imbrunire….giusto in tempo, ma ora finalmente so cosa c’è lassù!
2 Risposte